Articoli
I RICCI, INDIFESI PEDONI
Siamo gli animali più giovani. Tutti gli altri calcano la terra da molto più tempo di noi, tempo misurabile in milioni di anni e non nelle poche decine di migliaia della nostra presenza. Certo siamo molto più invadenti. Forti di un eclettismo intellettuale e di capacità manuali che non hanno uguali nel mondo dei viventi, abbiamo invaso e conquistato quasi tutti gli ambienti, diffondendo ed espandendo le infrastrutture che hanno accompagnato la nostra evoluzione fino a racchiudere il pianeta in una fitta rete di vie di comunicazione riservate solo a noi. Era ovvio che si finisse con il tagliare la strada a qualcun altro.
Una carrellata dei segnali stradali di ‘attraversamento animali’ adottati nel mondo, offre un piccolo ma indicativo assaggio della situazione creata dalla presenza umana in luoghi di abituale passaggio per altri animali. Si va dal nostrano ‘attraversamento cervi’ al decisamente più esotico ‘attraversamento granchi’ della Christmas Island in Indonesia, dalla segnalazione del possibile passaggio di dromedari in Tunisia, a quello di licaoni in Zimbabwe. In realtà in Italia il cervo della segnaletica stradale riassume la possibilità di incontro con un generico animale selvatico, così come l’immagine di una mucca rappresenta il probabile attraversamento di un animale domestico. Negli ultimi sessant’anni gli uffici nazionali di statistica hanno raccolto dati su incidenti provocati o evitati in extremis aventi per protagonisti cervi, cavalli, oche, gufi, lepri, sciami di vespe o di api e prsino struzzi. Le conseguenze più gravi le pagano i piccoli e lenti. Se non si contano più ma si stimano in peso (diverse tonnellate) i rospi schiacciati annualmente sulle strade italiane, si valutano invece in circa due migliaia i mammiferi selvatici – soprattutto ricci e volpi – mortalmente investiti ogni anno sulle nostre strade. Lungo i pochi chilometri di un breve itinerario stradale inglese, in una brumosa mattina autunnale, alcuni volontari hanno contato i corpi di quarantaquattro animali selvatici, la metà dei quali erano ricci. Quanto pesa sulla sopravvivenza di queste specie il quotidiano scontro con la civiltà umana motorizzata? Sono le ruote delle nostre vetture responsabili del loro declino? Di tutti gli animali selvatici che possiamo involontariamente e inconsciamente travolgere nei nostri spostamenti motorizzati, il riccio è quello che maggiormente attira la nostra attenzione, in parte per i numeri, in parte per la simpatia che da sempre suscita, in parte per il suo impotente e anacronistico sistema di difesa. Il riccio è abituato a non scappare di fronte al pericolo, ma a tenere con coraggio la posizione, opponendo resistenza – pur se passiva – al suo aggressore. Davanti alla minaccia di un predatore, il riccio si arrotola a palla, nasconde il muso e mette in tensione tutti i muscoli, una strategia di difesa che gli permette di respingere molti attacchi, ma ciò che può dissuadere un tasso, difficilmente ferma un’automobile.
Anno dopo anno i bollettini di questa guerra impari si gonfiano dei numeri dei ricci caduti. Se si affiancano queste cifre ai dati sulla costante diminuzione di questi piccoli mammiferi, un calo tale da averli portati con pieno diritto nelle liste degli animali europei a rischio di estinzione, aumentano dispiacere e angoscia quando li si osserva schiacciati sui nastri d’asfalto che attraversano periferie e campagne.
Eppure… L’attenta analisi non solo dei numeri ma anche dell’ecologia di Erinaceus europaeus – questo il nome scientifico del riccio comune – porta ad altre conclusioni. L’impossibilità di sfruttare gli habitat più congeniali a causa dell’agricoltura intensiva, l’avvelenamento di molte prede – insetti del suolo, chiocciole, lombrichi – provocato dall’impiego di fitofarmaci e antiparassitari, la presenza di insuperabili barriere fisiche – muri, palizzate, recinzioni – che rendono impossibile l’esplorazione, il foraggiamento e il raggiungimento di un partner, sono i veri e più temibili killer del riccio. Certo anche le strade giocano un loro ruolo, ma quasi marginale nei numeri.
Il riccio è un animale che ama esplorare vasti territori. Ad attività prevalentemente notturna, è in grado di percorrere alcuni chilometri alla luce delle stelle, sovente anche a ridossi dei piccoli centri abitati, dove minore è la possibilità di uno sfortunato incontro con un suo temibile predatore, il tasso. Gran camminatore è soprattutto il maschio, mentre la femmina è più stanziale. Individuata una tana adatta, la fodera di foglie e detriti vegetali, creando non solo un rifugio sicuro, ma anche la nursery ideale in cui svezzare i piccoli. D’altronde stiamo parlando di una specie in cui maschio e femmina formano una coppia giusto per il tempo necessario a un fugace amplesso, dopo di che il maschio riprende il suo vagabondare mentre la femmina si incarica di mettere al mondo, accudire e svezzare i piccoli. I dati sugli animali investiti confermano in un certo qual modo questo comportamento. A essere travolti sono soprattutto i maschi, sempre a spasso in cerca di nuove aree da esplorare e di compagne per una notte da fecondare, mentre le femmine perdono la vita sotto le ruote delle nostre macchine assai raramente, in genere solo in autunno, quando i piccoli sono ormai svezzati e indipendenti, e cause di forza maggiore le costringono a cercare un nuovo territorio e una nuova tana in cui attendere in letargo l’arrivo di una nuova primavera.
Ragionando in termini evolutivi, quanto costa alla specie la perdita di questi maschi farfalloni? La risposta è semplice: non molto, e proviamo a capire perché. In generale negli animali la produzione di spermatozoi da parte dei maschi è molto maggiore di quella di uova da parte delle femmine, e ciò fa sì che in natura prevalga come ‘sistema nuziale’ la poliginia, ovvero l’accoppiamento di un maschio con più femmine. Questo comportamento è inoltre favorito in quelle specie in cui il cibo è facilmente e abbondantemente disponibile, e la prole raggiunge rapidamente l’indipendenza, fattori questi che permettono alla femmina di badare da sola ai piccoli, mentre il maschio può proseguire la sua ricerca di femmine da sedurre. Nel caso del riccio comune, i mesi estivi – quelli della gravidanza e dello svezzamento – assicurano alla femmina lombrichi e insetti in abbondanza, e i piccoli raggiungono l’indipendenza già poche settimane dopo la nascita. Il maschio, dopo aver fecondato nei suoi spostamenti notturni cinque o sei femmine, è dunque sacrificabile, senza che la specie riceva alcun danno dall’avere un rapporto maschi:femmine sbilanciato a favore di queste ultime. Questo non è ovviamente estendibile anche ad altre specie, giacché ognuna vive secondo i dettami più adatti per la propria sopravvivenza, a seconda delle caratteristiche che l’evoluzione le ha ritagliato addosso, e non c’è un comportamento migliore di un altro in termini assoluti, ma solo uno più adatto degli altri alla situazione contingente. Nel caso dei rospi, per esempio, il danno provocato alla specie dagli investimenti sulle strade è enorme. L’attraversamento infatti avviene in genere nel periodo riproduttivo, quando i rospi lasciano il terreno per raggiungere stagni e corsi d’acqua in cui accoppiarsi. La falcidia avviene dunque prima degli accoppiamenti, influenzando pesantemente la sopravvivenza della specie.
Tornando ai ricci, e senza ovviamente giustificare il massacro notturno di questi piccoli animali che a decine di migliaia muoiono annualmente sulle strade europee, cerchiamo di focalizzare le vere cause del loro declino. La diffusione dell’agricoltura intensiva li ha certamente privati di aree di passaggio e foraggiamento, come pure la costruzione di edifici e strade, che isolando piccole popolazioni possono accelerarne esponenzialmente il declino, mentre l’impiego di fitofarmaci e antiparassitari non mirati causa la morte o l’intossicazione di molte loro prede. Sarebbe sufficiente la realizzazione di piccoli varchi tra terreni agricoli, rurali e a pascolo per permettere il passaggio e quindi la sopravvivenza delle popolazioni locali di ricci, e il ricorso alla lotta biologica per ridurre l’impiego nelle colture di prodotti sovente tossici per la microfauna del suolo.
E comunque scansiamoli. Se innumerevoli sono già gli ostacoli che li costringiamo a superare, almeno non facciamoci beffe della loro coraggiosa difesa.
Claudia Bordese
pubblicato su Piemonte Parchi n. 213s, speciale 2012, pagg. 14-17