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BAMBU', PIANTA DALLA FIORITURA GREGARIA
Le prime immagini che leghiamo al bambù sono in genere quelle di un bastoncello dalle rade foglie oblunghe, saldamente impugnato da un abulico panda, imperturbabile di fronte all’evidenza di stare stringendo in pugno il suo unico mezzo di sostentamento. Un salvavita dunque, l’unica differenza tra sopravvivenza ed estinzione per l’orsetto simbolo delle specie a rischio.
Ma da bravo Dr. Jekill, il bambù sa trasformarsi in Mr. Hyde, o meglio nella causa scatenante morte e sciagura per decine di migliaia di persone. Come? Ecco la sua storia.
Forse molti di voi ricordano quell’appendice ai racconti su panda e bambù, e cioè che la fioritura di questa pianta stravagante avviene, a distanza di molti anni, contemporaneamente in tutto il mondo, ed è seguita da rapida morte. Per correttezza scientifica, è bene dire che specie diverse di bambù (sono oltre 500 sul pianeta) seguono cicli diversi di fioritura, che può avvenire dopo 10, 30, 50 anni dalla germinazione, e che solo le popolazioni di piante generate da una medesima fonte di semi fioriscono tutte contemporaneamente, ovunque esse siano nel mondo. E’ quella che i botanici chiamano fioritura gregaria, alla quale segue una rapida fruttificazione con produzione di semi, garanzia di nuova vita, e una morte repentina. I semi germineranno nei mesi a venire, e dopo alcuni anni, 3, 4 o 5, sarà disponibile una nuova e rigogliosa foresta di bambù.
Nel corso della loro storia naturale, i panda giganti sono sopravvissuti a queste improvvise morie migrando dalle foreste centrali della Cina verso quelle di Vietnam o Birmania (l’attuale Myanmar), uscendo da questi periodici traumi un po’ malconci come specie. Oggi, fortemente limitati negli spostamenti da città e coltivazioni che assediano il loro ormai ridottissimo habitat, sopravvivono alle periodiche scomparse della loro unica fonte alimentare grazie ai sussidi statali (cibo, cure mediche), come ogni buon emarginato che si rispetti. Alla prossima fioritura loro sopravviveranno, ma saranno forse meno fortunati i lemuri del bambù in Madagascar, rimasti in poche centinaia a resistere all’assedio di una irresponsabile deforestazione.
Ben altri, ma parimenti gravi, sono i problemi fronteggiati dalle popolazioni nel nord-est dell’India. In questa appendice del subcontinente indiano, stretta tra Myanmar e Bangladesh, il terreno, prevalentemente collinare e montagnoso, ripido e fangoso, è quasi totalmente ricoperto da foreste, la metà delle quali di bambù, per la maggiorparte appartenente alla specie Melocanna baccifera. Le popolazioni locali sopravvivono grazie a un’agricoltura di sussistenza, basata su riso e frumento, e grazie al bambù, o mautak, come lo chiamano loro, che vendono alle cartiere statali e utilizzano per la produzione di manufatti artigianali, ma che soprattutto usano come fertilizzante, bruciando in marzo le piante raccolte in gennaio e febbraio, e spargendone le ceneri sui terreni da coltivare.
Purtroppo con inquietante e regolare cadenza il bambù provoca carestia e morte poiché, come narra la superstizione, ogni fioritura del mautak porta con sé distruzione e rovina. Ogni 48 anni si ripete la fioritura di questa specie: alla comparsa dei fiori segue con orientale lentezza la loro trasformazione in frutti, in genere 5 o 6 mesi dopo la fioritura. Frutti duri, con un’estremità uncinata, non più grandi di una pera, commestibili sì, ma non particolarmente gustosi, custodi di un seme oblungo, carnoso e nutriente. E ogni 48 anni, nel 1959, nel 1911, nel 1863 (non oltre si spingono le cronache registrate), il Nord-Est dell’India è colpito da una devastante carestia.
Poiché, pur amando miti e leggende, preferiamo i fatti alla superstizione, cerchiamo di capire quanto realmente accadde nel 1959, sfogliando le cronache di quegli anni. Alcune sporadiche piante di Melocanna baccifera avevano già iniziato a fiorire un paio di anni prima, come capita per tutte le specie di bambù, a fioritura gregaria ma non perfettamente sincronizzata. Nei mesi a cavallo tra il 1958 e il 1959 quasi tutte le piante erano però fiorite e si apprestavano a produrre frutti. L’apice fu raggiunto intorno alla metà dell’anno, a monsone già arrivato. I frutti cadevano a terra sempre più numerosi (una singola pianta ne produce circa 40 kg), seguiti a breve dalla morte delle piante stesse, effimere farfalle vegetali, pronte a morire al compimento del ciclo vitale. In un attimo le rigogliose foreste di bambù, ormai ridotte a cumuli di sostanza marcescente, furono invase da torme di ratti, incredibilmente famelici e ghiotti dei lunghi semi carnosi. Una tale abbondanza di cibo accelera in questi roditori i processi riproduttivi, e in breve la vorace schiera fu incrementata da una fiumana di nuovi nati, più affamati che mai, ma ormai impossibilitati a trovare ancora frutti e semi del bambù, ingordamente divorati dai loro genitori. Per placare la fame, in un attimo gli insaziabili ratti invasero e devastarono campi, risaie, granai e dispense; i sopravvissuti raccontano che nemmeno scavando nel terreno fino a tre metri fu possibile nei mesi successivi trovare ancora dei tuberi. Quando la razzia ebbe fine, le popolazioni locali si trovarono totalmente spogliate delle risorse alimentari, sia immagazzinate che da raccogliere, nonché prive del sostentamento economico derivato dalla lavorazione e dal commercio del bambù, poiché per avere nuove piante da raccogliere era necessario attendere almeno tre anni. Le colline ormai brulle, dal fragile suolo non più tenuto insieme dai robusti fusti sotterranei striscianti del bambù, smottarono in diversi punti, causando altri morti, e presto, incapaci di trattenere l’acqua, si inaridirono. Fu un’ecatombe. I Mizo, l’etnia locale prevalente, così duramente provati, accusarono il governo centrale di Nuova Delhi di non essere intervenuto in soccorso, e in breve la protesta portò alla nascita del Fronte di Liberazione Nazionale Mizo che, dopo tanta guerriglia e troppi morti, ottenne nel 1986 la creazione del Mizoram, nuovo stato all’interno dell’unione indiana.
Pur se privi di resoconti così dettagliati, e accettando come corollario del 1959 il Fronte di Liberazione Nazionale Mizo, possiamo presumere che le precedenti fioriture del bambù con le conseguenti fruttificazioni e invasioni di ratti e roditori vari, siano state la causa scatenante le gravi carestie del 1911 e del 1863.
Calendario alla mano, il conto è presto fatto. La prossima fioritura, a 48 anni da quella del 1959, è attesa proprio ora, nel 2007. In realtà già diverse zone, da alcuni anni, sono state oggetto di isolate e sporadiche fioriture, e molti villaggi nelle vicinanze hanno iniziato a denunciare l’improvvisa comparsa di grossi roditori, simili a ratti enormi. Di qui a pochi mesi è attesa l’esplosione.
L’attuale primo ministro del Mizoram è uno dei capi ribelli del Fronte di Liberazione. Il loro primo obiettivo era scongiurare in futuro altre drammatiche carestie e trasformare il bambù da spada di Damocle in volano per una nuova economia. Per questo il nuovo governo si è da tempo mobilitato per prevenire il disastro. L’idea è di agire su quattro diversi fronti: abbattere il bambù prima che fiorisca e muoia; prevenire la carestia stivando maggiori quantità di granaglie e generi alimentari; diversificare le coltivazioni, per ridurre la dipendenza da un’agricoltura di sussistenza; sviluppare l’industria del bambù, giacché oggi si utilizza solo il 2-3% di quello disponibile, mentre in Cina e nel Sud-Est asiatico il bambù è già considerato oro verde, e il Mizoram potrebbe competere con i maggiori produttori mondiali. Certo bisogna evitare interventi radicali volti a eliminare totalmente il bambù da questo territorio, visto che è parte integrante della sua storia naturale e sociale, e questo potrebbe essere garantito da un ulteriore progetto, elaborato dal ministero per lo sviluppo rurale. In questo piano di intervento si ipotizza di abbattere i bambù su un anello largo circa un chilometro, creando così una zona tampone desertica non facilmente attraversabile dai ratti. Per realizzarla bisognerebbe però mobilitare tutta la popolazione, e fare affidamento su infrastrutture al momento inesistenti. Purtroppo infatti le buone intenzioni si scontrano sovente con la cruda realtà. In Mizoram mancano quasi totalmente le strade per raggiungere e trasportare il bambù; i fondi raccolti dal governo centrale e da istituzioni pubbliche e private per finanziare i diversi interventi sono in massima parte finiti nelle tasche di funzionari corrotti. Mentre l’ex ribelle primo ministro mette taglie sui ratti giganti, vivi o morti, e invoca l’intervento dell’ONU, le donne nei campi pregano.
A pochi mesi dalla grande fioritura ben poco, in pratica, è stato realizzato. Il sogno di trasformare il disastro in opportunità è appeso a un esile filo, non lasciamo che sia un ratto a reciderlo.
Claudia Bordese
pubblicato su Piemonte Parchi n. 162, gennaio 2007, pp.2-4